Si sente spesso parlare dei “paradisi fiscali” e degli enormi danni economici che questi causerebbero all’erario italiano: da soggetti che trasferiscono la residenza all’estero per non pagare tasse in Italia, a società che costituiscono holding e sedi secondarie in Paesi a fiscalità privilegiata o che creano strutture societarie complesse che permettono loro di ottimizzare il proprio carico fiscale; si tratta di operazioni che comportano un aggravamento della situazione economica del nostro Paese che, da un lato, perde delle importanti entrate fiscali e, dall’altro, si vede costretto a “caricare” questo ammanco sugli altri cittadini, ossia gli “onesti contribuenti” che queste strategie non le adottano e che quindi le tasse le hanno sempre pagate.
Ciò fomenta quel senso di profonda ingiustizia che ci spinge ad aggredire personaggi come Sinner che, nonostante sia italiano e giochi a tennis per l’orgoglio italiano, ha scelto di andare a vivere a Montecarlo per non pagare le tasse in Italia; così come ci porta ad accusare alcune società multinazionali di elaborare vere e proprie strategie criminali per evadere le tasse in Italia e costringere le persone oneste a dover sopportare un carico fiscale più gravoso, al fine di sopperire agli ammanchi creati da tali “parassiti”.
"Se tutti pagassimo le tasse, pagheremmo tutti meno tasse"
“Se tutti pagassimo le tasse, pagheremmo tutti meno tasse” è il mantra principale di chi si è fatto paladino di questa battaglia all’evasione fiscale (ma sarebbe meglio dire “battaglia all’ottimizzazione fiscale”, in quanto tali condotte, per quanto possano apparire deprecabili ad alcuni, sono comunque perfettamente legali sul piano giuridico se pianificate con l’aiuto di un esperto del settore) sulla quale si è costruita una narrativa che divide il mondo in poveri e onesti lavoratori da una parte e ricchi parassiti sfruttatori dall’altro.
È davvero così?
In generale è inevitabile che, se un soggetto si sottrae all’imposizione fiscale in Italia, cagioni un danno all’erario di quest’ultima, che vede ridursi i propri incassi. Il problema non è quindi stabilire se questo sia vero o meno in astratto, quanto capire davvero quanto questo ammanco incida sul bilancio statale, e se possa quindi essere effettivamente additato come responsabile principale dell’aumento del carico fisale verso tutti gli altri soggetti.
Partiamo dai numeri più generali
Il bilancio statale, così come quello di qualsiasi società, prevede delle entrate e delle uscite. L’entrata principale dello Stato (ma non unica) è costituita ovviamente dai tributi prelevati alla popolazione. Nel 2024, le entrate tributarie dello Stato italiano sono ammontate a circa 605 miliardi di euro. Aggiungendo le entrate extra tributarie, lo Stato ha incassato in totale nel 2023 circa 687 miliardi di euro.
In compenso, l’Italia ha avuto uscite per circa 886 miliardi. Per farla breve: l’Italia perde ogni anno circa 200 miliardi per strada, ed è per colmare questo gap che, spesso, il Governo ricorre ad un aumento di tasse e imposte.
Se i paradisi fiscali non esistessero e le strategie di ottimizzazione fiscale fossero vietate, l’Italia incasserebbe certamente di più. Ma quanto, esattamente? Abbastanza per colmare quel gap?
I dati dell’Osservatorio Fiscale Europeo
Stando ai dati, la ricchezza italiana portata all’estero sotto forma di capitali e imprese ammonta a circa 186 miliardi. Se rimanessero in Italia, verrebbero chiaramente tassati, garantendo al Paese un guadagno di circa 5,3 miliardi di euro all’anno. Bisogna però preliminarmente fare attenzione alla circostanza che questi 5,3 miliardi di euro non sono imposte “evase”, in quanto l’esportazione dei capitali all’estero non è di per sé un reato. Infatti, la stragrande maggioranza dei capitali esportati all’estero sono regolarmente dichiarati nei quadri RW e non sono frutto di attività illecite. Situazione che dovrebbe indurre gli operatori del settore a interrogarsi sul perché alcuni italiani siano spinti ad esportare dei capitali regolarmente dichiarati all’estero (quindi non per ragioni illecite), anziché adottare misure più o meno severe per costringere quei soggetti a riportare il denaro in Italia.
Al di là di questo aspetto, la somma di 5,3 miliardi di euro costituisce solo il 2,5% di quell’ammanco in bilancio di 200 miliardi, e di certo non sarebbe nemmeno lontanamente in grado di risolvere i problemi economici del Paese e quindi permettere di realizzare questo agognato “alleggerimento” del carico fiscale verso gli “onesti pagatori”.
Si potrebbe obiettare che comunque 5 miliardi di euro l’anno non sono affatto una cifra irrisoria. Il punto è che i numeri sono grandi o piccoli in base al contesto in cui li inserisci. Infatti, basterebbe guardare i dati dell’evasione fiscale interna all’Italia, quindi non tanto coloro che portano i capitali all’estero per sottrarli alla tassazione quanto coloro che pagano i dipendenti in nero, effettuano prestazioni senza emettere fatture o non battono gli scontrini, per scoprire che tale forma di evasione costa allo Stato 100 miliardi l’anno, ossia 20 volte il “costo” dei tanto odiati “paradisi fiscali”.
Ma questo è il meno.
Se volessimo davvero interrogarci sulle cause dell’eccessiva tassazione e del costante deficit di bilancio statale, su un piano banalmente razionale bisognerebbe anzitutto chiedersi “perché” lo Stato italiano spende così tanto ogni anno da costringere i vari Governi a mantenere una pressione fiscale così alta. Diamo infatti per scontato che qualunque spesa statale sia in qualche modo inevitabile, e di conseguenza ci concentriamo esclusivamente sul “dove” trovare altre entrate per sostenere quelle spese. Ma siamo davvero sicuri che quegli 886 miliardi di spesa pubblica siano tutti inevitabili e giustificati?
L'analisi della GCIA di Mestre
Si è calcolato che gli sprechi nella Pubblica Amministrazione (tra costi di gestione dei rapporti con la PA, lentezza della giustizia, deficit infrastrutturale, sprechi nella sanità e nel servizio di trasporto pubblico) costano allo Stato italiano almeno 225 miliardi di euro all’anno. L’11% del PIL.
Allo stesso modo, la sola corruzione – molto diffusa in Italia – si è stimato abbia un costo per lo Stato di circa 237 miliardi l’anno (secondo una ricerca del centro RAND del 2023). La corruzione, peraltro, ha numerose ricadute sulla società e sull’economia di un Paese. Secondo i dati della Banca Mondiale (2017), il reddito medio nei Paesi con un alto livello di corruzione è di circa un terzo inferiore a quello dei paesi con un basso livello di corruzione.
Inoltre, il rapporto Doing Business della Banca mondiale e quelli del Gruppo europeo contro la corruzione hanno dimostrato che entrambe le problematiche, ossia le inefficienze amministrative e la diffusione della corruzione, comportano il dirottamento all’estero degli investimenti anche più degli elevati livelli di tassazione, oltre che causare generale aumento dei costi, assenza di meritocrazia, sfalsamento della concorrenza, riduzione delle compagini aziendali e quindi disoccupazione, e di conseguenza perdite fiscali derivate dall’evasione, in un circolo vizioso infinito. Ed ecco spiegato perché anche gli investitori “onesti” sono incentivati a portare i loro capitali fuori dall’Italia; il problema si rivela dunque non tanto di “evasione” o di ricchi approfittatori, quanto di mala gestione interna delle finanze che fa scappare i capitali dal Paese.
Ora. Se 5 miliardi l’anno potevano sembrarvi davvero in grado di condizionare il peso del carico fiscale sugli “onesti contribuenti”, provate a immaginare quanto potrebbero invece farlo – e in effetti fanno – più di 450 miliardi l’anno.
La lotta alle inefficienze amministrative e alla corruzione (problematiche entrambe addebitabili alla mala gestione di quella stessa classe dirigente che aumenta il carico fiscale giustificandosi col fatto che, a causa dei paradisi fiscali, lo Stato perde numerose entrate…) potrebbe dunque incidere enormemente sul bilancio dello Stato e consentire, eventualmente, un alleggerimento sensibile del carico fiscale, pari a quasi 100 volte tanto quello che sarebbe in grado di fare, nella migliore delle ipotesi, la lotta ai paradisi fiscali.
Quando si accusa Sinner di essersi trasferito a Montecarlo, e quindi di non essere un vero “patriota” ma un “furbetto” che vuole solo sfuggire al fisco italiano, godendosi la vita sulle spalle degli onesti lavoratori che si trovano costretti a pagare le tasse al posto suo, ripensate a questi numeri e provate a prendere in considerazione l’ipotesi che, forse, i paradisi fiscali siano solo lo specchietto per le allodole per nascondere sotto il tappeto la polvere di una gestione economica disastrosa da parte della classe dirigente italiana, che perdura ormai da decenni; e che, se anche Sinner pagasse le tasse in Italia, se anzi tutti i tennisti del mondo pagassero le tasse in Italia, gli onesti contribuenti continuerebbero comunque a subire il medesimo carico fiscale, perché quelle tasse servono a coprire il buco (enorme) della corruzione e dell’inefficienza amministrativa e non quello (infinitesimale) causato dalle società offshore e dai tennisti che si trasferiscono oltralpe, oltretutto nel pieno rispetto della legge e dei diritti individuali.
Cosa emerge dai dati e dalla situazione fattuale
Non è affatto vero che l’esportazione di capitali all’estero sia la causa un aumento della pressione fiscale, ma è semmai vero l’esatto contrario: è piuttosto l’eccessivo carico fiscale, dovuto alla mala gestione, alla corruzione e agli sprechi, che crea sfiducia in investitori e imprenditori, i quali scelgono di conseguenza di esportare i propri capitali, le proprie imprese e il proprio “know how” all’estero.
Adottare strumenti di ottimizzazione fiscale è infatti una normale, lecita quanto opportuna strategia imprenditoriale, tanto quanto lo è cercare di ottimizzare le spese di un’azienda, migliorarne l’efficienza ed alzare la qualità dei propri prodotti o servizi; lo scopo di un’impresa è quello di massimizzare i profitti, perché maggiori profitti creano più liquidità e dunque maggiori investimenti, più forza lavoro, più margini. Ed abbattere le spese è il primo e più efficace modo per generare guadagni.
Pensateci: se un imprenditore sceglie una fornitura a minor costo ma con una qualità equivalente o maggiore a quella più cara, è considerato un bravo imprenditore; se sceglie un sito dove avviare il business che fornisca burocrazia più snella e servizi migliori ad un costo fiscale più basso, è considerato un evasore. Nonostante il risultato raggiunto nei due casi sia sostanzialmente lo stesso (spendere meno, quindi guadagnare di più) e nonostante entrambe le scelte abbiano un impatto, come visto, sostanzialmente nullo sugli altri contribuenti.
C’è una grossa contraddizione concettuale dietro questo ragionamento, che deriva da un pregiudizio di base che ci impedisce di vedere quali siano le reali criticità economiche del Paese e ci porta ad additare come colpevoli dei semplici imprenditori, sportivi o personaggi noti che cercano di rendere efficiente la propria struttura imprenditoriale, a beneficio proprio ma anche di dipendenti, fornitori e clienti.
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In conclusione
Se si vuole davvero evitare la fuga di cervelli e di capitali all’estero, e magari anche stimolare l’arrivo di investimenti e capitale umano dall’estero, è necessario che l’Italia torni ad essere attrattiva, che risolva i suoi problemi endemici legati all’inefficienza del sistema e che quindi possa permettersi anche di alleggerire il carico fiscale.
Purtroppo, appare decisamente più semplice individuare un colpevole come il Sinner di turno contro cui accanirsi anziché prendere atto della reale complessità della situazione.
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