La Storia dei Passaporti in Vendita

Il senso di appartenenza a un gruppo sociale è un istinto ancestrale, legato al senso di sopravvivenza che spinge gli esseri umani ad aggregarsi intorno a un gruppo per rafforzare le proprie “chance” di sopravvivenza. Per questo, l’appartenenza a un gruppo costituisce uno degli elementi più forti e più primitivi che caratterizzano l’essere umano, che lo aiuta sia a riconoscersi in una “casa” che a distinguersi dal “diverso”.

Così, il sentirsi parte di una famiglia, di una tribù, di un villaggio, di una nazione è presto diventato uno dei caratteri distintivi dell’essere umano, così come una delle principali cause dei dissidi, degli scontri, delle discriminazioni e delle guerre che hanno caratterizzato la nostra storia.

Ripercorriamo i passaggi

Cosa è cambiato nel nuovo millennio

La globalizzazione, l’avvicinamento dei popoli e delle aree geografiche, la possibilità di visitare e raggiungere ogni luogo del pianeta in meno di 24 ore, l’apertura dei mercati e dei confini all’intera cittadinanza mondiale (seppur con le inevitabili eccezioni) sta profondamente modificando non solo il modo in cui concepiamo il business, il lavoro e le diversità del mondo, ma anche il nostro stesso concetto di appartenenza a un gruppo.

Il “diverso”, oggi, non solo non è più così lontano e misterioso, ma è diventato sempre più alla portata di tutti; oggi è estremamente più semplice condividere abitudini, tradizioni, lingue, tecnologie, conoscenze, perfino la cucina di popoli che fino a un secolo fa erano considerati completamente “alieni” da noi.

Le ripercussioni di questo cambiamento

Questo sconvolgimento ha avuto una serie di ripercussioni non di poco conto su linee diametralmente opposte: da un lato ha rafforzato in alcuni casi la diffidenza verso il diverso e quindi il senso di appartenenza al proprio gruppo, causata dal vedere in questo inesorabile avvicinamento e rimescolamento di idee, lingue e culture una vera e propria “minaccia” alla nostra stessa essenza; in altri casi, invece, ha prodotto l’effetto contrario, ossia la nascita di un sentimento sempre più cosmopolita che ha consentito alle persone di maturare una visione sempre più ampia del proprio concetto di appartenenza, verso un’idea di cittadinanza sempre più globale e sempre meno locale.

Inoltre, l’avvento della globalizzazione e del capitalismo (diffusosi ormai anche nei Paesi più dichiaratamente anticapitalisti come Cina, Russia e Paesi orientali in genere), avvenuta soprattutto sul piano dei mercati e quindi in un significato spiccatamente economico, ha fatto sì che la cultura globale imparasse a dare ad ogni fattore umano e sociale un valore principalmente economico, anche con riguardo a ciò che, tradizionalmente, si è sempre attribuito un significato prettamente ideologico, spesso economicamente non quantificabile.

La trasformazione del concetto di cittadinanza

In questo senso si deve leggere la trasformazione del concetto stesso di cittadinanza, da valore legato all’amor di patria, al legame con le proprie origini e a caratteristica intrinseca della identità di ognuno, a potenziale “moneta di scambio” quando non una vera e propria risorsa economica da sfruttare sul mercato.

Non è un caso che, in questi ultimi decenni, abbia iniziato a diffondersi l’idea che la cittadinanza potesse essere messa in vendita, trasformando un valore ideologico in una possibile voce del PIL, soprattutto per quei Paesi che, per la loro piccola estensione geografica, la bassa densità di popolazione e la scarsità di risorse, facevano non poca fatica a rendersi appetibili sul mercato globale e a far crescere la loro ricchezza. In effetti, i primi Paesi ad adottare la strategia di vendere la propria cittadinanza in cambio di un investimento sono Stati proprio quei Paesi che avevano una forte necessità di accrescere la propria ricchezza in termini di PIL e rendersi maggiormente attrattivi per gli investitori esteri, come condizione essenziale per favorirne lo sviluppo. Quali sono appunto i Paesi caraibici, composti per lo più da piccole isole prive di risorse strategiche, capaci di sfruttare unicamente l’attrattiva turistica e a rischio di non poter sostenere le sfide del mondo globalizzato.

St. Kitts and Nevis: il primo CBI Program

Il primo CBI Program del mondo è stato infatti proposto dallo Stato di St. Kitts and Nevis, nel lontano 1984, appena un anno dopo la sua dichiarazione di indipendenza. Una decisione che fu presa con una certa perplessità dal resto della Comunità Internazionale, interpretandola più come una bizzarra trovata piuttosto che una oculata scelta economica. Invece, in breve tempo il programma ha avuto successo ed ha finito per costituire per il piccolo Stato insulare un introito fisso capace di contribuire al 40% del PIL dell’intero Paese.

CBI Program nei Paesi in via di sviluppo

La portata del successo ha così spinto diversi altri Paesi simili dell’area come Antigua e Barbuda, St. Lucia, Grenada e Dominica a sviluppare un progetto simile per rimpinguare le casse dello Stato, raggiungendo gli stessi risultati. Iniziava così la compravendita dei passaporti e della cittadinanza come strumento di sviluppo economico capace di garantire investimenti, crescita imprenditoriale e aumento dei posti di lavoro, spesso unitamente alla promessa di agevolazioni fiscali volte a garantire la permanenza in loco degli investitori stranieri per l’avvio di sempre nuove idee di business.

Lo sviluppo dei CBI Program nei Caraibi non poteva che spingere sempre più Paesi, anche in altre parti del mondo, a creare programmi simili. Da altri Stati insulari come le Isole Comore (ritirato negli ultimi anni), a Vanuatu, alle Isole Salomone, sempre più Paesi in via di sviluppo hanno optato per lo sfruttamento di una risorsa potenzialmente inesauribile – la cittadinanzacome merce di scambio per lo sviluppo economico della Nazione.

Programmi di cittadinanza per investimento in Europa

Ma non sono solo i Paesi del secondo mondo ad aver scelto una simile strategia. Ben presto anche in Europa si sono sviluppati programmi di cittadinanza per investimento e non solo in Stati del “secondo mondo” come Malta, Cipro, la Bulgaria, l’Ungheria, la Serbia e il Montenegro, ma addirittura in Paesi molto sviluppati come l’Austria, mentre ormai quasi tutti i Paesi UE prevedono, se non la vera e propria cessione della cittadinanza, diversi Programmi di residenza e di permesso di soggiorno ottenibile attraverso investimenti nel Paese (i cosiddetti Golden Visa), ai quali può conseguire l’ottenimento del passaporto con la naturalizzazione (ossia il mantenimento della residenza nel Paese per un certo numero di anni).

L’attrazione di capitali, investimenti e imprese, ma anche famiglie dai cospicui patrimoni, attraverso la concessione di un secondo passaporto o di un permesso di soggiorno permanente è così diventata negli ultimi decenni non solo una normale prassi in voga in tutto il mondo, ma un vero e proprio strumento di finanziamento dell’economia di un Paese.

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In conclusione

Si tratta quindi di uno strumento che può ben essere sfruttato da imprenditori, businessmen e da famiglie per espandere il proprio business, accrescere le proprie opportunità e massimizzare i profitti, oltre che garantirsi con maggiore facilità un “plan B” per abbattere il rischio Paese.

Nel mondo odierno, infatti, ottenere una o più residenze o una o più cittadinanze non serve solamente a crearsi una porta per “cambiare vita” e non è più uno strumento legato unicamente al concetto di “trasferimento”: seconde residenze e secondi passaporti possono offrire un’opportunità in più sia per massimizzare i profitti (potendo scegliere il Paese che maggiormente sa valorizzare il tuo settore di business o fornisce le migliori agevolazioni fiscali per la tua forma societaria, in maniera perfettamente legale), sia offrire maggiori opportunità per cittadini di Paesi “svantaggiati”, visti con sfiducia dalla comunità internazionale e quindi con un potere più limitato in termini di capacità di spostamento e libertà economica.

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